“The Mound”, uno splendido racconto autobiografico ispirato al baseball di Gatti Fabrizio
Nella seconda metà degli anni settanta frequentavo l’Università a Parma.
Un pomeriggio di primavera, non avendo quel giorno molta voglia di andare a lezione né di dedicarmi allo studio, decisi di fare una passeggiata al Parco Ducale.
Attraversatolo, dal centro città verso la periferia, una volta uscito nella zona delle mense studentesche, voltai a destra e mi ritrovai così in Viale Piacenza, zona che peraltro conoscevo piuttosto bene.
Da quelle parti, infatti, c’era un centro polisportivo dedicato ai “Sette fratelli Cervi”, martiri della Resistenza. Ne varcai il cancello principale, percorsi tutta la struttura fino in fondo dove speravo di assistere a qualche allenamento.
Con estrema sorpresa però non incontrai nessuno, e dopo aver attraversato un paio di porticine fortunatamente aperte, mi trovai direttamente sul campo, che era deserto.
Nessun custode, nessun “buon uomo” che mi aspettavo mi urlasse prima o poi: “Veh, ti, bagaj, cosa fai qui? Non si può entrare sul prato!”.
Percorsi con tremore tutti i metri che conducevano proprio in mezzo al diamante, dove sostai trattenendo il fiato e chiudendo addirittura gli occhi.
Ecco: mi trovavo proprio sulla pedana del monte di lancio della “mia” mitica Bernazzoli (che ora però si chiamava Germal), la squadra di baseball di cui ero appassionato tifoso, pedana calcata ogni fine settimana dai pitcher che erano i miei idoli, Miele, Gioia, e dalla quale l’altro “mio” grande campione, Giacomo Bertoni, aveva letteralmente domato l’Olanda in una partita del Campionato Europeo cui avevo assistito qualche anno prima, appena quindicenne.
Proprio per questo lo stadio nel quale mi stavo avventurando tutto solo – come in un sogno – era stato chiamato “l’Europeo”, costruito per ospitare quella importante manifestazione, e successivamente altri tre Campionati del Mondo, oltre naturalmente le partite di serie Nazionale, così si chiamava in quegli anni quella che poi è diventata l’IBL…
Pensare di trovarmi lì, al centro del diamante che allora era il mio mondo sportivo, mi riempiva di commozione, di una agitazione che si prova solamente quando si è giovani. Avevo vent’anni ed ero pitcher della squadra di baseball della mia città, una piccola società minore che mai avrebbe giocato su quel campo leggendario.
Mi immaginai lo stadio pieno di gente, “sentii” davvero i tifosi venuti per assistere ad una partita nella quale ero stato chiamato a lanciare.
Impostai il movimento che ben conoscevo, arcuando le braccia in alto, contemporaneamente al passo all’indietro, poi l’avvitamento, simile ad un passo di danza, per raccogliere tutta la forza come una molla e scagliare l’immaginaria pallina verso il mio catcher, impugnandola per uno “slider”, il mio lancio migliore.
Fu probabilmente il caricamento più lento e più lungo di tutta la storia del baseball, non posso dire quanto tempo rimasi così, so solamente che volevo durasse all’infinito, perché potessi assaporare quel momento e ricordarmelo per tutta la vita.
Fantasticai naturalmente un bellissimo strike-out, con il grido di soddisfazione del pubblico amico, il mesto ritorno nel dug out del battitore lasciato al piatto, mentre il cuore mi batteva in petto ed io provavo una delle gioie più “pure” della mia gioventù.
E fu proprio perché mi era stato concesso di vivere una favola che non arrivò nessun custode a mandarmi via (anche se, chiaramente, ero rimasto sul monte solo qualche minuto) e potei uscire tranquillamente dal terreno, con gli spalti ritornati vuoti e silenziosi.
Oggi il glorioso Stadio di baseball “Europeo” di Parma non esiste più, demolito per far spazio a più prosaici uffici commerciali, e per un altro più moderno (e più “freddo” – non sono il solo a dirlo) in un’altra parte della città.
Per tutta la vita, però, e fino ad oggi che sono un attempato signore, ho serbato dentro me il ricordo, sempre vivissimo, di quei pochi minuti in cui sono salito sul monte di lancio di quel mitico diamante.
Molte generazioni di campioni, giocatori di baseball del massimo livello italiano, nazionali prestigiose come Cuba, Usa, Giappone, Corea, vi avrebbero disputato negli anni importanti partite, addirittura finali di Campionati Mondiali, proprio lì dove anch’io per qualche minuto ero stato – nel sogno – grande come loro.
Fabrizio Gatti
Il “Gatto” 28 ottobre 2013